Guido Gozzano
Guido Gozzano (1883-1916) si distingue per l'ironia con cui caratterizza le tematiche tipiche del movimento. Nel descrivere il mondo circostante il poeta non rinuncia mai ad un tono colloquiale e prosaico che però si mescola con un riso leggero, soprattutto quando Gozzano accosta oggetti comuni e quotidiani con gli emblemi della tradizione poetica (Dante, Carducci o D'Annunzio, a seconda delle circostante, come bene si vedrà ne La signorina Felicita ovvero la felicità (dove, sempre proseguendo questo gioco di disconoscimento ironico, il poeta ammette: “io mi vergogno, | sì, mi vergogno d’essere un poeta!”).
La signorina Felicita ovvero la Felicità è la poesia più celebre di Gozzano e forse dell'intero Crepuscolarismo, dal momento che sono qui presenti tutti i temi principali di questo movimento letterario, dall’anti-dannunzianesimo alla malattia, dal rifiuto del ruolo di "poeta" ufficiale al fascino per il mediocre quotidiano, passando naturalmente per la costante tendenza gozzaniana all’ironia e alla parodia di se stesso.
Tra le più famose composizioni poetiche di Guido Gozzano, troviamo la Signorina Felicita. Questa signorina, conosciuta durante una villeggiatura dell'autore in campagna, è il simbolo di quel mondo di provincia, semplice e tranquillo. Nelle prime tre strofe, il poeta ricorda e rivede la città di Ivrea e la Dora Baltea che scende azzurra dai monti. È il 10 luglio, pensa il poeta, Santa Felicita, onomastico della signorina, così si sofferma a pesare cosa poteva fare in quel giorno. Farà il caffè, si domanda, oppure starà canticchiando mentre cucina? Lei che abitava in una villa, i cui muri erano cosparsi di cocci di vetro per difenderla dai ladri. Nelle strofe successive, fa una descrizione della ragazza. Ha un'espressione buona, con capelli biondi fatti con trecce, che la rendono simile a un dipinto di scuola fiamminga; una bocca di color rosso vino; un volto quadro senza sopracciglia, tutto cosparso di lentiggini e occhi azzurri che fissano diritto in volto. Lei l'aveva amato, ella faceva di tutto per piacergli e lui ne era lusingato. A volte, egli era trattenuto dalla signorina Felicita a cena e ricorda quando per la partita giungeva l'illustre gruppo del paese: il notaio, il sindaco, il dottore. Lui, poeta, era un giocatore distratto. Preferiva starsene in cucina tra le stoviglie, godendo di quel silenzio sia da parte sua che dalla signorina, tra quegli odori di erbe aromatiche.
Totò Merumeni
Un legame di odio amore unì Gozzano a D’Annunzio: per anni egli imitò il vate pescarese, prima di divenire il suo critico più severo. Nasce da tale presa di distanza questo componimento, intitolato a un personaggio (Totò Merumeni) che pare un esteta dannunziano, ma che in realtà è solo un poveretto, un fallito, sia come uomo sia come letterato. Lo rivela anche il nome del personaggio, ricalcato (ma con una fanciullezza, e ironica, deformazione) sul titolo di una commedia del latino Terenzio: Heautontimorùmenos, il punitore di se stesso. Anche Totò si tormenta, consapevole che la vita gli ha riservato ben altro che i successi del superuomo. A simili tormenti, intuiamo, sottostava lo stesso Gozzano, prima di liberarsi dell’ingombrante presenza del modello dannunziano.
Temi: il ritratto di un letterato sterile e inutile, la sua vita solitaria, la rinunzia ad agire, l’attesa della morte.
Anno: 1911
Come ci rivela l’allusione a una commedia di Terenzio (il punitore di se stesso) contenuta nel titolo, il tema del poemetto è l’ossessione autopunitiva. Totò (cioè: Gozzano da giovane) non è riuscito a vivere la propria vita come un’opera d’arte, secondo il programma di Andrea Sperelli, primo eroe dannunziano. Ora se ne rende conto; non gli resta perciò che rinunciare al vivere inimitabile dell’esteta, diventando il buono deriso da Nietzsche (v. 30).
Questo destino di sconfitta era, per lui, inevitabile. Difficilmente avrebbe potuto realizzare i suoi sogni di grandezza, nato com’è in quella famiglia anomala, con una madre inferma, / una prozia canuta ed uno zio demente (vv. 15-16). In seguito è rimasto scottato da esperienze che sembravano esaltanti (la Vita si ritolse tutte le sue promesse, v. 37) e perciò, adesso, si trattiene lontano dalla vita reale. Preferisce compiangersi, scrivendo esili versi consolatori (v. 52), piuttosto che darsi da fare per modificare la realtà.
Siamo dunque all’opposto del superuomo dannunziano: rifiutato il vivere inimitabile, Totò è divenuto un uomo di solo pensiero, impermeabile agli entusiasmi, estraneo all’accendersi della vita comune. Infatti opra in disparte, sorride, e meglio aspetta (v.59). Totò è divenuto insomma uno di quei personaggi troppo intellettuali che costellano la letteratura d’inizio secolo; una specie di teorista alla maniera di Svevo.
Il poemetto evidenzia la consueta gozzaniana.
L’autore si distanzia un po’ da tutto; infatti irride:
•la tradizione letteraria: il mondo del Libro di Lettura, una specie di letteratura scolastica e di seconda mano;
•le correnti ideologiche politiche (Nietzsche);
•i nuovi ceti sociali: gli arricchiti impellicciati.
Le stesse maiuscole di Vita (v. 37), Amore (v. 38), Spirito (v. 56), Tempo (v. 58) ammiccano al sublime che Gozzano respinge da sé.
Questa volontà dissacratoria e il sorriso distaccato si esprimono anche nel lessico. Si va da toni aulici (numerosi risultano gli echi letterari del testo, da Dante a Petrarca all’Ariosto) a toni prosaici (gazzettiere) e situazioni quotidiane (gli amori con la cuoca, il gioco in cortile con il gatto e la scimmia). Il linguaggio esprime molto da vicino lo scarto tra la vita reale e la vita soltanto sognata da Totò.