Cesare Pavese: la poetica e le opere
Nel Mestiere di vivere, il diario iniziato nel 1935 e portato avanti fino a pochi giorni prima della morte, Cesare Pavese scrive: “Ci vuole la ricchezza d’esperienza del realismo e la profondità di sensi del simbolismo”. Questo breve appunto può costituire un’utile chiave interpretativa dell’intera opera di Pavese. Realismo e simbolismo sono infatti i due poli attorno ai quali ruota tutta la sua scrittura.
Del realismo Pavese conserva il solido ancoraggio alla realtà, nella scelta dei tempi, degli ambienti, fino alla lingua e allo stile; il simbolismo agisce invece nella costante tendenza a superare i dati oggettivi in un’interpretazione metaforica e simbolica della realtà stessa.
In altre parola, luoghi, personaggi, situazioni sono sempre determinati, realistici, ma la descrizione di questo mondo concreto non è l’obiettivo principale dell’autore, bensì il mezzo per mostrare una realtà ulteriore, mitica, ancestrale, evocata attraverso le particolari relazioni colte tra le cose, implicata nel ritmo stesso della narrazione che assume di per sé una funziona metaforica.
Pavese è condizionato anche dalla letteratura americana anni ’30 (Hemingway), di cui si occupa nel suo lavoro di traduttore.
La poetica di Pavese coincide con la poetica del mito, ossia "del vedere sempre la seconda volta".
L’uomo è condizionato dal suo primo vedere infantile. Nell’infanzia, in un primigenio contatto con il mondo, si sono formati in noi dei miti dei simboli che vivranno poi sempre nel nostro inconscio.
Quindi ogni uomo, quando conosce razionalmente il mondo, non si trova di fronte ad una realtà ignota da indagare, ma di fronte ad una realtà assunta nel suo inconscio come mito cioè di fronte ad una realtà già vista per cui conoscere vuol dire vedere le cose per la seconda volta.
Pavese delinea una connessione: infanzia-mito-destino per la quale ogni vita risulta predeterminata da alcuni eventi fondamentali delle origini.
Il ritorno all’infanzia, per Pavese non è dunque un recupero memoriale (Proust) o un ricordo di un periodo felice e per sempre perduto (Leopardi), ma è un ritrovare nel nostro inconscio questi miti: è uno scavo nella nostra interiorità per conoscere noi stessi e il nostro destino che si è determinato nel primordiale e aurorale contatto con le cose.
Il mito è un’esperienza che proietta la sua luce su tutta la vita di un individuo.
La dimensione del mito è un mondo nel quale tutto è fermo e si scontra con quello della storia dove invece tutto cambia.
Secondo Pavese in ogni uomo è radicato un contrasto fondamentale: contrasto infanzia maturità; ed è questo che caratterizza la spiritualità degli uomini del nostro tempo; contrasto che è sul piano storico e geografico-sociale.
Lo possiamo semplificare secondo lo schema seguente:
-campagna-infanzia-civiltà primitiva
-città-maturità-civiltà evoluta
Pavese razionalmente è allineato sui secondi termini del contrasto sa che l’uomo deve diventare adulto, che la storia è progresso e civiltà, che la città sveglia l’uomo e lo rende più aperto alla vita ai problemi umani e ai doveri sociali; ma sentimentalmente resta legato ai primi termini del contrasto.
Lavorare stanca (1936).
"L’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e tenta di rimediarvi con il sesso e la passione, che servono solo a gettarlo in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza”.
Qui troviamo già i miti di Pavese:
-Il senso elementare e nostalgico della natura: la memoria delle colline, della campagna, della vita rustica.
-La scoperta della città che attrae e respinge: le sue periferie, le sue strade le sue luci; i ragazzi, gli operai, le donne maliziose.
-L’esasperazione sessuale le ansie e i disinganni il fervore del sangue e le inibizioni.
Ma è presente anche il tema dell’impegno della maturità del cercare una donna e mettere su casa, espresso in particolare su la poesia che dà nome alla raccolta.
Paesi tuoi (1941).
Propone l’antitesi morale e sociale città campagna. Pur rientrando per alcuni aspetti nel filone neorealistico, presenta tuttavia presenta tuttavia evidenti elementi di quella che è stata definita "la poetica del mito".
La dimensione mitica del romanzo è, per ora, ad una visione della campagna come luogo di sopravvivenza dell’arcaico, delle superstizioni, del "selvaggio".
Berto, un operaio torinese esce di prigione insieme al contadino Talino, individuo goffo e brutale. Poiché Berto è senza lavoro, questi lo convince ad andare con lui alla sua cascina, per accudire alla trebbiatrice. Qui Berto scopre un mondo per lui nuovo, quello della campagna. Il romanzo vive quindi il contrasto, quotidiano e continuo, tra la lucidità razionale di Berto e la realtà che lo circonda, fortemente impregnata di convinzioni e gesti rituali e irrazionali.
Il compagno (1947).
Il romanzo narra la storia di Pablo, un giovanotto piccolo-borghese che trascorre tutto il suo tempo dietro il banco di un negozio dove si vendono tabacchi e alla sera suona la chitarra con gli amici. Pablo però si sente solo soprattutto dopo che l'amico Amelio ha avuto un grave incidente con la moto insieme a Linda, la sua ragazza, e non può più muovere le gambe.
Un giorno Pablo va a trovare l'amico e conosce Linda, una ragazza disinvolta e libera, e se ne innamora ma non dice ad Amelio che è uscito con lei.
Linda è una ragazza disinvolta e libera che lavora in una sartoria teatrale, fa vita mondana e conosce attori e impresari.
Linda lo introduce nel mondo del teatro, lo porta a ballare ed è sempre lei a prendere iniziative, mentre lui la segue sempre più innamorato. Una sera incontrano a teatro Lubrani, un impresario di cinquant'anni, pieno di soldi, che fa una corte serrata a Linda. Pablo, che non vuole perdere la ragazza, cerca un lavoro perché vuole guadagnare e sposare Linda. Trova lavoro dapprima in una officina e poi come camionista, ma nel frattempo Linda si stanca di lui e lo lascia per mettersi con Lubrani.
Quando Pablo si accorge che Linda è per lui perduta si butta nel lavoro e prova il gusto di avvilirsi ritornando con gli amici a suonare chitarra e cantare canzonette. Alla fine segue il consiglio dell'amico Carletto e decide di lasciare Torino dando termine così alla sua giovinezza che vede senza futuro.
Così, dopo undici capitoli ed esattamente a metà romanzo, termina la prima parte del racconto.
Pablo si reca a Roma che è in quel periodo oppressa dal fascismo e prende coscienza della nuova realtà entrando a far parte di un gruppo di opposizione clandestina. Egli trova anche un lavoro in una bottega dove si riparano le biciclette e dove lavora Gina, una donna che è l'antitesi di Linda.
Legge intanto con interesse alcuni libri proibiti che lo motivano maggiormente al suo nuovo impegno politico e con Carletto, l'attore che aveva conosciuto a Torino ai tempi di Linda e che aveva viaggiato con lui, comincia a conoscere la città. Intanto, tra lui e Gina, la padrona del negozio, nasce un legame serio e senza scosse. Nel frattempo egli passa dall'opposizione borghese in cui si muove all'opposizione operaia e un giorno gli viene chiesto dai compagni di dare asilo a Gino Scarpa, un fuoriuscito spagnolo ricercato dalla polizia fascista. Pablo viene arrestato e incarcerato ma, per assenza di prove, è rimesso in libertà con l'obbligo di rientrare a Torino. Si incontra con Gina e, anche se la conclusione rimane in sospeso, si comprende che ella lo raggiungerà.
Dialoghi con Leucò (1947).
Una serie di 27 brevissimi racconti strutturati in forma di brevi dialoghi tra personaggi presi dalla mitologia greca. In quest’opera Pavese va alla riscoperta dei miti che, seppur storicamente di un’epoca ormai tramontata (quella greca), ci appartengono ancora in maniera viscerale nella misura in cui “fissano” le angosce e le esperienze più intime dell’uomo (amicizia, amore, morte, dolore, destino).